Il licenziamento inviato tramite email, sms o WathsApp.
Dapprima l’utilizzo della posta elettronica, poi di messaggistica istantanea quali SMS (sigla dell’inglese Short Message Service) e di applicazioni WhatsApp sono entrate prepotentemente nei modelli organizzativi del lavoro modificandone e velocizzandone alcuni tratti.
La diffusione di tali mezzi, oramai invalsi e tali da considerarsi naturalmente consueti, trova ora utilizzo non solo nella programmazione delle attività ma anche per comunicare la cessazione del rapporto di lavoro, come le dimissioni o il licenziamento. I casi, invero, non sono ancora numerosissimi, sebbene in rapido aumento, e riguardano per lo più realtà produttive medio – piccole o particolari settori quali quello dell’informatica o delle start up.
Ma tali forme di comunicazione hanno valore legale?
Per quanto riguarda le dimissioni volontarie, la risposta è senza dubbio negativa, posto che dal 12 marzo 2016 le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro debbono essere effettuate in modalità esclusivamente telematiche, tramite una procedura “online” accessibile dal sito Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Discorso diverso va fatto per i licenziamenti, per i quali sono già intervenute (seppur in numero estremamente limitato) alcune pronunce giurisprudenziali.
Punto di partenze è l’art. 2, comma 1, l. n. 604 del 1966, ai sensi del quale il datore di lavoro deve comunicare il licenziamento per iscritto a pena di inefficacia (art. 2, comma 3). Secondo parte della giurisprudenza, la mancanza di forma scritta rende addirittura il licenziamento inesistente e, come tale, non sottoposta nemmeno a impugnazione nei termini dei 60 giorni di decadenza previsti dall’art. 6 l. n. 604 del 1966.
Si pone in primo luogo la questione se la forma scritta pretesa dalla legge possa considerarsi osservata nel caso del licenziamento avvenuto con invio della comunicazione con strumenti digitali.
L’utilizzo della e mail (non certificata) per il licenziamento.
Nelle prime sentenze, la firma non certificata apposta nel messaggio di posta elettronica è stata considerata insufficiente ai fini della validità dell’atto perché – secondo i giudici- non certificava l’effettiva provenienza del messaggio dal datore di lavoro (cfr. Tribunale di Frosinone del 15.2.2016; e Tribunale di Roma del 20.12.2013).
A tale indirizzo si era contrapposta la sola sentenza del Tribunale di Milano 5 ottobre 2010, secondo la quale la riferibilità al datore di lavoro, anche in assenza di sottoscrizione autografa, era integrata se la missiva recava l’intestazione del datore mittente e il nome e cognome dell’autore.
A favore della validità del recesso operato tramite posta elettronica è in seguito intervenuta la sentenza della Corte di Cassazione del 12/12/2017 n. 29753 secondo la quale la mail equivale ad atto scritto se il datore di lavoro prova che la stessa è stata ricevuta dal lavoratore. Il requisito della comunicazione per iscritto del licenziamento deve ritenersi assolto con qualunque modo che comporti la trasmissione al destinatario del documento nella sua materialità, e ciò avviene anche nel caso in cui sia trasmesso a mezzo e-mail un documento allegato in formato PDF.
Vero è che la Suprema Corte pretende dal datore la prova che il lavoratore abbia effettivamente ricevuto la mail ma tale onere è da considerarsi assolto con l’impugnazione del licenziamento o con qualsiasi risposta alla mail datoriale; o semplicemente con il fatto che il dipendente cessa di recarsi al lavoro. D’altronde, se il lavoratore rinuncia ad impugnare la risoluzione del rapporto non potrà fare valere le proprie ragioni; e se vorrà contestare il licenziamento non potrà fare a meno di impugnarlo dando implicitamente atto di averlo ricevuto.
L’utilizzo degli sms e dei messaggi WhatsApp.
Anche il licenziamento via sms può considerarsi valido: la sentenza della Corte d’Appello Firenze, del 05/07/2016 afferma che riveste forma scritta, essendo tale messaggio assimilabile ad un telegramma dettato per telefono, rispetto al quale non si pone alcun problema astratto di rispetto degli oneri formali laddove risulti incontestata la provenienza della comunicazione dal datore di lavoro.
Sulla medesima linea si è posto il Tribunale di Torino (sentenza del 14.5.2020 n. 2114) secondo il quale l’utilizzo degli sms è pienamente conforme e rappresenta l’adattamento della forma scritta allo stato attuale della tecnologia.
Motivazioni analoghe a quelle della citata Corte d’Appello di Firenze sono state adottate dal Tribunale di Catania con Ordinanza del 27 giugno 2017 per quanto riguarda il licenziamento avvenuto con messaggio WhatsApp : non vi sono dubbi, infatti che si tratti di documento informatico imputabile e riferibile al datore di lavoro. Sul punto va ricordato che la volontà di licenziare non ha bisogno di formule sacramentali e può essere comunicata al lavoratore anche in forma indiretta, purché chiara” (v. Cass. 13.8.2007 n. 17652).
Diversa soluzione, invece, sembra preferirsi nel caso che il messaggio whatsApp sia reso vocalmente. Qui la prescrizione normativa della forma scritta non è ravvisabile e la forma di recesso di questo tipo è da assimilare piuttosto a un licenziamento in forma orale (e quindi nullo e inesistente).
Il recesso mediante pagina Facebook.
Proviamo, infine, e prendere in considerazione la fattispecie del licenziamento avvenuto tramite Facebook. Qui non mi constano ancora pronunce giurisprudenziali, tuttavia vi è un’interessantissima disamina effettuata da Anna Rota ne “L’intimazione del licenziamento nell’era digitale: dalla notificazione a mezzo raccomandata all’invio tramite WhatsApp” in https://labourlaw.unibo.it.
L’autrice rileva come il licenziamento su Facebook avvenuto tramite messaggio privato possa essere assimilato al sms o alla e mail. Anche quello mediante tag o pubblicazione sulla bacheca del lavoratore rispetterebbe l’esigenza della comunicazione come strumento scritto che pone in rapporto diretto il datore con il prestatore. Al contrario sembrerebbe illegittima la pubblicazione del licenziamento sulla pagina o il profilo del datore senza ricorrere a meccanismi che direttamente riconducano l’informazione al destinatario del provvedimento estintivo. Oltretutto, le modalità di comunicazione a mezzo Facebook (ma anche tramite tutti gli altri social) potrebbe ritenersi tale da ledere la dignità, reputazione, immagine professionale con conseguenti obblighi risarcitori.
Conclusioni.
Un licenziamento comunicato mediante sms o WhatsApp appare sempre poco dignitoso (soprattutto per colui che lo mette in atto) anche se non ritengo, in mancanza di altri elementi, possa essere motivo di apposita richiesta di risarcimento danni per lesione dell’immagine o della dignità.
Ciò premesso, e indipendentemente dal giudizio di cui sopra, l’utilizzo di mezzi informatici ed elettronici è legittimo e raggiunge i suoi fini ogniqualvolta sia inequivoca la volontà datoriale di licenziare (che anche in un messaggio può risultare chiaramente); non ci siano dubbi sulla provenienza della comunicazione (circostanza dimostrabile dall’appartenenza dell’indirizzo elettronico o dell’utenza al datore di lavoro); e che sia giunto a conoscenza del lavoratore (circostanza dimostrabile, ad esempio, con l’impugnazione stragiudiziale dell’estromesso o con qualsiasi altro mezzo che ne comprovi la conoscenza quale il fatto che non si è più presentato al lavoro).
Un pericolo di comunicare il licenziamento tramite messaggistica istantanea è invece, rappresentato dal rischio di non motivare sufficientemente i motivi del recesso. Ai sensi dell’art. 2 co. 2 della L. 604/66 anche la motivazione, così come la forma, costituisce un requisito essenziale del licenziamento perché serve al lavoratore al fine di assumere una precisa posizione per l’eventuale impugnazione. L’utilizzo di un sms o di un WhatsApp per i quali vi è inclinazione a una comunicazione stringata potrebbe indurre a tralasciare di riportare le ragioni della risoluzione del rapporto, o di riassumerli troppo frettolosamente (es. formule come: “ci dispiace, non abbiamo più bisogno di te”) offrendo in tal modo il fianco a un’impugnazione non per lesione della forma scritta bensì per la mancanza dell’indicazione dei motivi.