Il patto di non concorrenza con i dipendenti.
Alcune riflessioni.
Il patto di non concorrenza, previsto dall’art. 2125 c.c. è un contratto, accessorio rispetto a quello di lavoro, con il quale il datore di lavoro si obbliga a corrispondere al dipendente una somma di denaro, o altra utilità, in cambio della rinuncia di quest’ultimo, entro determinati limiti, a svolgere attività concorrenziale dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
La pattuizione è causalmente autonoma e costituisce, quindi, un distinto negozio giuridico (v. C. 15.7.2009, n. 16489), e l’eventuale nullità dell’accordo di non concorrenza non si estende al contratto di lavoro, nemmeno nel caso in cui lo stesso avesse costituito un presupposto fondamentale del contratto di lavoro.
Gli elementi costitutivi del patto di non concorrenza, in mancanza dei quali è nullo, sono: la forma scritta, la previsione di un limite temporale e nell’oggetto e prevedere un corrispettivo .
Generalmente, la forma non costituisce motivo di contenzioso: l’apposizione della firma c’è o non c’è; maggiormente spinosa diventa la questione dell’individuazione dell’oggetto del patto (in cui sono ricompresi estensione e durata) e del suo corrispettivo.
Per quanto riguarda l’oggetto, è nullo il patto se i limiti fissati sono tali da non lasciare al lavoratore neppure una residua possibilità di operare nel settore economico di riferimento mentre è valido quello che, pur comprimendo l’esplicazione della professionalità non compromette al lavoratore la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita. (v. Cass. 19.12.2001 n. 16026).
Il patto non deve obbligatoriamente limitarsi alla mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, ma riguardare qualsiasi prestazione lavorativa che possa competere con le attività economiche svolte dal datore di lavoro.
Limite territoriale e oggetto sono strettamente connessi: sono così stati ritenuti validi anche patti estesi all’intero territorio nazionale, o addirittura comunitario perché i limiti di oggetto erano stati estremamente circoscritti (e ripagati con un corrispettivo adeguato). Qualora, invece sia maggiormente compromessa la spendita della professionalità, deve per forza ridursi l’area geografica impedita.
Qualche esempio pratico: è stato ritenuto valido un patto di non concorrenza della durata di un anno che inibiva al lavoratore con le mansioni di intermediatore finanziario, di svolgere attività in concorrenza con l’ex datore di lavoro limitatamente al territorio dell’Emilia Romagna e di non trattare clientela acquisita o gestita nel corso del precedente rapporto di lavoro, anche al di fuori di tale limite. E’ stato dichiarato conforme, un patto in cui la limitazione territoriale era estesa a quattro regioni italiane (Piemonte, Liguria, Val d’Aosta); mentre è stato dichiarato nullo un patto con un dirigente che prevedesse l’astensione della propria attività, in concorrenza con l’azienda, per cinque anni per tutta l’Italia e l’Europa.
La valutazione complessiva del patto non può prescindere pertanto da soppesare durata, estensione territoriale, limitazione dell’attività, corrispettivo. Adottando questi criteri, il Tribunale di Milano (sent. 16.7.2013) ha ritenuto valido un patto della durata di tre anni, esteso in tutta Europa riguardante qualsiasi tipo di attività a favore di sole sei società individuate e un corrispettivo di € 236.000,00 pagato in più rate dopo la cessazione del rapporto.
Lo stesso Tribunale di Milano, qualche anno prima (sent. 3.5.2005) aveva dichiarato nullo un patto di non concorrenza anch’esso esteso a tutta l’Europa, ma avente come oggetto tutte le attività in concorrenza con il gruppo societario (quindi una limitazione notevole) e a fronte di un corrispettivo pari al 50% dell’ultima retribuzione annua lorda (compenso ritenuto non adeguato al complesso della restrizione).
Va segnalato il contrasto fra due pronunce su patti di non concorrenza che prevedevano entrambi l’ allargamento non solo all’Italia ma genericamente all’estero; in ambedue i casi si trattavano di attività con un numero limitato di competitor a livello mondiale (in uno si trattava di produzione di filtri, nell’altro di imbarcazioni da diporto di lusso). Il Tribunale di Ravenna (sent. 24.3.2005) ha ritenuto che a prescindere dal numero di concorrenti sul mercato internazionale debba sempre sussistere una delimitazione territoriale la quale è prevista dall’art. 2125 c.c. al fine di preservare al lavoratore la possibilità di lavorare in una qualche porzione del territorio.
Di contrario avviso è stato il Tribunale di Lucca (sent. n. 705 del 9.6.2014) che riteneva consono un patto della durata di due anni, giustificando l’indeterminatezza del territorio proprio perché il settore interessato (imbarcazioni da diporto di lusso) opera a livello mondiale.
Il corrispettivo per il patto di non concorrenza avrebbe la funzione di ristorare il minor guadagno che il lavoratore realizzerà in conseguenza degli obblighi assunti e alle spese che potrebbe affrontare per riconvertirsi a una nuova attività. La norma non indica un criterio di quantificazione e la giurisprudenza ha fissato, come riferimento, che il patto non deve prevedere compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno.
Quindi tornano in rilievo i criteri prima citati, cioè il lasso di tempo della non concorrenza; l’ampiezza territoriale; il tipo di attività.
E’ stato ritenuto valido il patto di non concorrenza che prevedeva la corresponsione in costanza di rapporto di un corrispettivo pari a circa 2,5% della retribuzione annua e, comunque, l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere a tale titolo una somma complessiva, tenuto conto di quanto già percepito nel corso del rapporto, non inferiore al 40% dell’ultima retribuzione fissa annua lorda del lavoratore (Trib. Milano 25.3.2011). Oppure un compenso lordo annuo di € 9.800,00, pari al 13-14% della retribuzione annua lorda del lavoratore al tempo della sottoscrizione del patto medesimo (Trib. Roma 5.3.2020).
E’ stato invece considerato nullo un patto che prevedeva un corrispettivo unico per il lavoratore determinata in ragione di anno di Euro 6.000,00 al lordo delle ritenute di legge (Trib. Treviso 20.2.2020).
Atri esempi: per un patto lungo 3 anni, su base nazionale; solo un settore è stato ritenuto congrua la cifra di 7.500 euro all’anno (Cass. civ. Sez. lavoro Ord. 26.5.2020 n. 9720). In un altro caso , più o meno uguale al precedente è stato ritenuto congruo il 10% dello stipendio annuo per ognuno dei tre anni (Cass. 7835/2006). In altri casi ancora, 13 mensilità a fronte di un patto di 3 anni.
In relazione alla nullità del patto per inadeguatezza del corrispettivo, si segnala la recente sentenza della Cassazione n. 5540 del 1.3.2021, a mente della quale la nullità può essere invocata per la pattuizione di compensi simbolici o per quelli manifestamente iniqui o sproporzionati rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore. Non opera, invece, per rimediare a un mero squilibrio economico nello scambio, a rettifica del quale il lavoratore potrà richiedere sempre la risoluzione del contratto ex art. 1467 c.c. o la rescissione (art. 1448 c.c.), ma non eccepirne la nullità.
Come misura generale, è da ritenere che il corrispettivo minimo in favore del lavoratore per un patto di non concorrenza debba aggirarsi a non meno del 20%-30% della retribuzione lorda annua; fermo restando che, qualora l’ambito del patto di non concorrenza sia molto vasto è consigliabile aumentare la percentuale.
In ogni caso, giova istituire un patto di non concorrenza solo se realmente vi sia il pericolo che il lavoratore possa spendere ciò cha ha imparato a favore di una concorrente, ed è comunque consigliabile prevedere una penale per il lavoratore che non lo rispetta oltre che l’obbligo del lavoratore a comunicare qualsiasi sua nuova attività sia come subordinato sia come autonomo.
Per quanto riguarda la modalità del pagamento del corrispettivo, esso può avvenire successivamente alla cessazione del rapporto; oppure mensilmente durante il rapporto di lavoro.
In relazione a quest’ultima modalità, alla minoritaria giurisprudenza che la considerava illegittima in quanto il corrispettivo non sarebbe stato determinato, si è opposto un filone oramai preminente che asserisce la determinabilità del compenso ai sensi dell’art. 1346 c.c. in quanto ricavabile dall’importo mensile da corrispondere e dall’estensione cronologica del rapporto di lavoro (v. Cass. n. 3507/2001; Cass. n. 23418/21).
Alcune sentenze, oltre a confermare la legittimità della quantificazione del corrispettivo in funzione della durata del rapporto (fatta salva la verifica ex post della congruità) hanno sottolineato che essa è coerente con la funzione del patto riconoscere un corrispettivo che aumenta in funzione della durata del rapporto. Il rischio dell’imprenditore di subire un danno del lavoratore che passi alla concorrenza cresce con la maggior competenza acquista dal lavoratore con il tempo che passa ed è quindi logico e coerente che il corrispettivo del patto aumenti in funzione della durata del rapporto. In tale caso, l’ammontare è in relazione alla durata del rapporto di lavoro.
Il patto non ammette una clausola che attribuisca al datore la facoltà di recesso unilaterale alla data di cessazione del rapporto o per il periodo successivo, in vigenza del patto. Detta clausola, infatti, potrebbe costituire lo strumento attraverso il quale eludere le garanzie che l’art. 2125 c.c. accorda al lavoratore, snaturando gli interessi del patto, in quanto produttiva di un’indeterminatezza temporale dell’obbligo assunto dal prestatore di lavoro. E’ pertanto nulla sai sensi dell’art. 1344 c.c. (Cass. Civ. sez. Lav. Ord. 23723/2021).