Conciliazioni e transazioni: quando nemmeno la sottoscrizione in sede protetta garantisce la validità dell’accordo.

Il momento in cui le parti addivengono a un accordo e stabiliscono di formalizzarlo in una conciliazione non mette sempre la parola fine ai contrasti.

Spesso infatti le parti si sentono ancora in guerra. Non vogliono intendere che lo spirito della transazione è quello di abdicare alla giustizia a favore della convenienza; e se da un lato pretendono (correttamente) di inserire nel testo della conciliazione ciò che reclamano, non accettano che controparte faccia altrettanto, ma – al contrario- vorrebbero che ammettesse i suoi torti.

Ciò complica maledettamente il lavoro dei consulenti che gli assistono, costretti a misurare le parole, a riscrivere il testo, a spiegare nuovamente che nelle buone transazioni non dovrebbero esserci né vinti, né vincitori, tutte circostanze che allungano inutilmente e infruttuosamente i tempi della conclusione della lite, con danno per gli stessi soggetti che provocano il ritardo: sia di chi deve incassare la somma della conciliazione, che vede allontanarsi il momento dell’introito; sia della controparte che avrebbe interesse a chiudere definitivamente la controversia.

Indipendentemente da questi aspetti di carattere sociologico, in questo articolo s’intende porre l’attenzione su quei contenuti che possono mettere a rischio di nullità la conciliazione anche quando appare formalmente corretta.

E’ fuorviante ritenere che sia sufficiente, per superare qualsiasi forma d’invalidità, firmare la conciliazione in una delle sedi protette previste dalla legge vale a dire – oltre la sede giudiziale- le Commissioni di Conciliazioni presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro; le sedi sindacali; i Collegi di Conciliazione e Arbitrato.

Infatti, la deroga prevista dal comma 4 dell’art. 2113 c.c. in base alla quale con l’accordo in sede protetta si possano sormontare i divieti alle rinunzie e alle transazioni relativi i diritti derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti collettivi non si riguarda la categoria dei diritti assolutamente indisponibili, quelli cioè definiti primari o strettamente personali i cui atti dispositivi sono sempre nulli  ai sensi dell’ articolo 1418 cod. civ.

Si tratta di quei diritti garantiti a livello costituzionale: ad esempio il diritto alle ferie, la cui irrinunciabilità è sancita dall’art. 36 Cost., oppure il diritto alla salute, al riposo settimanale, etc.

Qualsiasi atto dismissiorio di suddetti diritti è nullo (anche se avvenuto in sede protetta); ma – è opportuno precisare che rientrano tra i diritti disponibili nel limite del comma 4 dell’art. 2113 c.c. la rinuncia al trattamento economico e ai diritti di natura risarcitoria derivanti dalla lesione di suddetti diritti (v. Cass. civ. Sez. lavoro, 3.2.2006, n. 2360). Ad esempio, è nullo l’accordo con cui il lavoratore accetta di non usufruire di ferie; ma è valido l’accordo con cui alla fine del rapporto, rinuncia all’indennità sostitutiva delle ferie non godute. Sono da considerarsi nulle ex art. 1418 c.c. anche le transazioni relative i diritti futuri ed eventuali

Quella dei diritti assolutamente indisponibili non esaurisce la casistica delle nullità o delle illiceità rilevabili nei verbali di conciliazione. In generale, affinché una transazione possa definirsi tale deve sussistere la c.d. res dubia, cioè l’incertezza (almeno nell’opinione delle parti), sui diritti realmente spettanti. Ad esempio, ritengo che a fronte di una conciliazione che riguardi un licenziamento, occorrerà che il lavoratore abbia impugnato con lettera scritta il recesso, o quanto meno che la contestazione del recesso risulti nelle premesse dell’accordo.

Strettamente legata alla res dubia vi un altro elemento essenziale costitutivo della transazione: quello delle “reciproche concessioni delle parti”. In buona sostanza, perché l’accordo abbia valore transattivo è necessario che ciascuna delle parti conceda qualcosa rispetto alle pretese della controparte. Ad esempio, si è ammesso l’accordo con cui il lavoratore rinunciava alle retribuzioni relative al periodo tra licenziamento e reintegrazione nel posto a fronte della rinuncia del datore a proseguire il giudizio di impugnazione della pronuncia di illegittimità del licenziamento (Cass. 29.5.1998, n. 5350); è stata invece considerata nulla la c.d. transazione a somma zero (v. Cass. 7.11.2018, n. 28448; Cass. 8.6.2007, n. 13389) cioè quella (nemmeno così rara a vedersi) in cui il lavoratore rinuncia alle sue rivendicazioni (ad esempio straordinari, indennità varie, differenze retributive ecc.) a fronte del pagamento di una somma pari a quella maturata per legge o per contratto nel corso del rapporto medesimo (ad esempio il t.f.r.).

A maggior ragione è stato considerato nullo il verbale di conciliazione in cui il datore di lavoro, a fronte delle rinunce del lavoratore corrispondeva una somma simbolica. Lo hanno ribadito il Tribunale di Milano, con sentenza n. 577/2015, e quello di Monza con la sentenza n. 358/2015 (in entrambi i casi erano stati offerti € 50,00), rilevando che le reciproche concessioni di cui all’art. 1965 c.c. devono essere commisurate alle reciproche pretese e contestazioni.

Occorre comunque precisare che l’esigenza di vicendevoli rinunce non significa pretenderne la loro equivalenza nel valore economico; pertanto è valida qualsiasi soluzione mediana tra le rispettive pretese, prescindendo dalla proporzionalità e senza dover fare il raffronto tra l’offerta economica del datore di lavoro (che pure, come abbiamo visto non può essere né simbolica, né pari a quanto già maturato dal lavoratore) e il valore della rinuncia. Ad esempio, non si può di certo esigere che a fronte della rinuncia all’impugnazione di un licenziamento sia corrisposta una somma pari a quella che il lavoratore avrebbe percepito dal medesimo datore nel corso degli anni rimanendo dipendente.

Altra condizione di validità è rappresentata dall’effettiva assistenza al lavoratore dei rappresentanti sindacali. Secondo una giurisprudenza consolidata la mancanza è rilevata quando, ad esempio, il sindacalista si limiti alla lettura del verbale predisposto dal datore di lavoro senza illustrare la portata della decisione di aderire alla conciliazione sul piano dei costi/benefici e senza spiegare al lavoratore le conseguenze delle rinunce, al di là dell’avvertenza rituale sul fatto che con la firma del verbale non si può “tornare indietro” e riproporre le rivendicazioni transatte o chiederne la modifica (v. Cass. 23.10. n. 24024; e Cass. 22.5.2008 n. 13217). L’onere della mancanza ricade su chi intende affermare la nullità dell’accordo e non è operazione facile per chi voglia eccepirla. Un indizio di assenza di effettiva assistenza può essere presunta nel caso in cui il sindacalista sia stato scelto dall’azienda e non dal lavoratore.

All’opposto di quelli esaminati sino a ora abbiamo inoltre casi (non molto numerosi) nei quali il lavoratore può rinunciare ai propri diritti senza nemmeno ricorrere alla conciliazione in sede protetta: sono i trattamenti economici derivanti da pattuizioni individuali (c.d. superminimo) o altre forme di retribuzione eccedente i minimi tabellari; la risoluzione consensuale, la precedenza di riassunzione entro sei mesi a seguito di licenziamento collettivo o per giustificato motivo oggettivo; il diritto di precedenza entro dodici mesi in caso di cessione di azienda; il diritto di precedenza alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale e tempo pieno.

Molto spesso suddetti tipi di rinuncia rientrano in un corpo conciliativo più vasto, tuttavia quando non sono collegati ad altre rinunce, non necessitano – come detto- di una soluzione in sede protetta. Beninteso: la conciliazione ai sensi dell’art. 2113 c.c. non rappresenta un motivo di nullità tuttavia, non essendo necessaria per legge, appare inutile ricorrervi.

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