IL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE DIVENUTO INIDONEO ALLA MANSIONE PER RAGIONI FISCIHE O PSICHICHE.

Con la recente sentenza n. 6497 del 9 marzo 2021, la Corte di Cassazione è tornata sull’argomento relativo la licenziabilità del lavoratore divenuto inidoneo alla mansione, confermando sostanzialmente le determinazioni di sentenze precedenti.

Nel caso di specie, il lavoratore era stato giudicato inidoneo alla mansione dal medico nominato dall’azienda ai sensi dell’art. 25 del D.lgs. 8172008 (c.d. medico competente). Non potendo svolgere quella determinata funzione e non avendone altre cui applicarlo perché tutte già stabilmente occupate, il datore di lavoro lo aveva licenziato per giustificato motivo oggettivo.

In questa sentenza la Corte ha precisato che in tali casi non si applicano i tipici parametri del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, e ha indicato gli ulteriori requisiti necessari per permettere al datore di risolvere il rapporto con il dipendente divenuto inabile allo svolgimento delle mansioni.

Il punto di partenza è che l’infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui il lavoratore possa essere adibito a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori (v. L. n. 68 del 1999, art. 4, comma .nonché D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 42). Naturalmente, queste mansioni devono essere compatibili con le minorazioni del prestatore.

In ogni caso – sostiene la Corte- l’impossibilità di ricollocare il disabile non esaurisce gli obblighi del datore che intenda licenziarlo perché prima dovrà comunque ricercare adattamenti che consentano il mantenimento del posto.

Ciò nell’ottica dei doveri di solidarietà sociale. del D. Lgs. n. 216 del 2003, attuativa della direttiva 2000/78/CE, che impone ai datori di lavoro di adottare accomodamenti ragionevoli (la norma italiana per la precisione utilizza la locuzione “soluzioni ragionevoli”) per abbattere o diminuire le difficoltà delle condizioni di lavoro, comprese quelle del licenziamento, delle persone disabili.

La definizione di accomodamento (o soluzione) ragionevole, a causa della sua astrattezza, può creare non poche difficoltà per il datore di lavoro, che dovrà non solo valutare quali modifiche tecniche e organizzative sarà possibile apportare, ma anche individuare i confini della ragionevolezza entro i quali egli ha l’obbligo di agire; ben sapendo – oltretutto- che il suo operato potrà essere sottoposto al vaglio di un giudice.

Non vi è dubbio che gli oneri organizzativi non debbano essere eccessivi e sono pertanto da valutarsi in relazione alle peculiarità dell’azienda e alle relative risorse finanziarie (v. Cass. n. 27243 del 2018; in conformità v. Cass. n. 6678 del 2019 e Cass. n. 18556 del 2019).

L’art. 5 della direttiva 2000/78/CE dell’Unione Europea parla di “provvedimenti appropriati” del datore di lavoro, “in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere a un lavoro e di svolgerlo”. Si trattano dunque di adeguamenti, lato sensu, organizzativi appropriati e idonei a consentire alla persona svantaggiata di svolgere l’attività lavorativa.

La direttiva elenca; in via esemplificativa (non esaustiva) alcune misure pratiche, quali la sistemazione dei locali, l’adattamento delle attrezzature, la regolazione dei ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti, sempre nell’ambito dell’assenza un onere che incida sproporzionatamente sugli equilibri finanziari.

Se la “sproporzione” del costo rispetto alle dimensioni e alle risorse finanziarie dell’impresa rende l’accomodamento di per sé irragionevole, non può escludersi che, anche in presenza di un costo sostenibile, le circostanze di fatto rendano la modifica organizzativa priva di ragionevolezza. Ad esempio, non si può pretendere – nemmeno per mano giudiziaria- che per mantenere il posto della persona disabile si debbano trasferire o demansionare altri lavoratori; o pretendere che ci si reiventi una mansione appositamente ritagliata.

In via generale, per dare un senso il più concreto possibile al termine ragionevolezza, non si può prescindere dal concetto di correttezza e buona fede che presidia ogni rapporto obbligatorio contrattuale ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c. (cfr, Cass. SS.UU. n. 5457 del 2009), che impone a ciascuna delle parti del rapporto il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (tra le tante: Cass. n. 1460,5 del 2004; Cass. n. 20399 del 2004; Cass. n. 13345 del 2006; Cass. n. 15669,del 007; Cass. n. 10182 del 2009; Cass. n. 17642 del 2012; da ultimo, con riferimenti, v. Cass. n. 8494 del 2020).

Occorrerà, pertanto, soppesare gli interessi giuridicamente rilevanti delle parti coinvolte: l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico e l’interesse del datore a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l’impresa, tenuto conto che l’art. 23 Cost. vieta prestazioni assistenziali, anche a carico del datore di lavoro, se non previste per legge (Cass. SS.UU. n. 7755/1998 cit.).

All’esito di questo complessivo apprezzamento, potrà dirsi ragionevole ogni soluzione organizzativa praticabile che miri a salvaguardare il posto del lavoratore divenuto disabile in un’attività che sia utile per l’azienda e che imponga all’imprenditore, oltre che al personale eventualmente coinvolto, un sacrificio che non ecceda i limiti di una tollerabilità considerata accettabile secondo “la comune valutazione sociale”.

Nella pratica, gli accomodamenti ragionevoli rappresentano soluzioni di “buon senso”, non necessariamente dispendiose: ad esempio, l’apposizione di strisce antiscivolo nei gradini, l’utilizzo di hardware e/o software specifici; l’applicazione degli aspetti ergonomici della postazione, degli strumenti, degli aspetti psico-sociali, cioè provvedimenti efficaci e pratici, ad esempio sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti in funzione delle esigenze delle situazioni concrete senza imporre al datore di lavoro un onere sproporzionati.

Nell’impossibilità di apportare ragionevoli adattamenti il datore di lavoro, comprovando anche mediante presunzioni – trattandosi di provare un fatto negativo o un “non accadimento”-, potrà licenziare il lavoratore per giustificato motivo oggettivo.

Per terminare, un cenno all’ipotesi in cui il licenziamento riguardi il peggioramento di salute del lavoratore già invalido, assunto dalle categorie protette. In questo caso, potrà essere licenziato solo dopo che l’inidoneità è stata accertata dalla Commissione Medica e che non sia possibile attuare i ragionevoli adattamenti che in tal caso debbono essere dettati (o comunque con il benestare )dalla Commissione.

Il licenziamento del lavoratore